La crisi climatica si sta manifestando in tutta la sua drammaticità. Una lunga siccità è stata seguita da due eventi meteorici estesi e di grande intensità: in meno di due settimane è caduta, nelle zone più colpite dalle alluvioni in Romagna, più della metà della pioggia che solitamente è attesa in un anno, con oltre 20 fiumi esondati, un evento senza precedenti negli ultimi 100 anni.
Dobbiamo però essere chiari, questo evento, sicuramente eccezionale, rende solo ancora più evidente la vulnerabilità dei nostri territori, che è tale anche a prescindere dall’aggravio dei fenomeni intensi indotto dal cambiamento climatico. Corsi d’acqua fortemente artificializzati sono intrinsecamente fragili. Eventi con portate più elevate di quelle per cui le opere di difesa sono state progettate sono sempre possibili, e ora sempre più probabili. Inoltre basta che una piccola parte dell’infrastruttura vada in crisi, ad esempio che pochi metri di rilevato arginale cedano, per vanificare l’intero sistema di protezione. Assumere che le opere strutturali “mettano in sicurezza” il territorio è illusorio e alimenta ulteriormente un uso del suolo imprudente e spregiudicato, inducendo a concentrare insediamenti e attività antropiche anche nelle valli fluviali. Il cambiamento climatico rende ancora più necessario un cambiamento di paradigma. Abbiamo bisogno di ricreare sistemi resilienti in grado di assorbire i massimi pluviometrici e sostenere le portate di magra, in un ampio spettro di scenari. Ed è quanto mai urgente comprendere come l’approccio infrastrutturale ed “emergenziale” portato avanti dal Governo, e ribadito in queste ore anche dal Ministro Pichetto Fratin, vada nella direzione sbagliata, spingendo ancora di più verso l’artificializzazione del territorio e dei corsi d’acqua.
Non servono più argini, come sostiene il Ministro, ma più spazio ai fiumi e meno consumo di suolo. Nelle aree attualmente alluvionate non mancano certo le opere di difesa. Ma pensare di mitigare il rischio idraulico ricorrendo esclusivamente a infrastrutture in cemento è da sempre un errore. È stato realizzato un sistema fragile e adesso anche sottodimensionato rispetto agli eventi a cui stiamo assistendo. Dobbiamo fare un passo indietro e investire ingenti risorse in un programma nazionale per la realizzazione di interventi integrati, che garantiscano contestualmente la riduzione del rischio idrogeologico, il miglioramento dello stato ecologico dei corsi d’acqua e la tutela degli ecosistemi e della biodiversità.
È necessario cambiare approccio e immaginare strategie di difesa maggiormente diversificate e più efficaci. Bisogna arretrare gli argini dai corsi d’acqua – ovunque sia possibile – e riconquistare terreni al demanio pubblico, ripristinare aree di laminazione naturale delle piene, indennizzando gli agricoltori che potranno essere danneggiati dalle esondazioni, eliminare le coperture di cemento dai corsi d’acqua prima che lo facciano da soli, ricostruire ponti più alti e proporzionati a portate più elevate, delocalizzare aree residenziali e produttive e infrastrutture a rischio. Si deve ristabilire la funzionalità dei sistemi fluviali, utilizzando soluzioni basate sulla natura, così come già previsto dagli indirizzi comunitari e anche dal nostro Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici.
Restituire spazio ai fiumi non c’entra nulla con il “non fare”, al contrario, è fare quello che serve davvero. E alcuni tentativi in questo senso sono stati fatti anche in Romagna, ma di fronte ad eventi di questa intensità serve uno sforzo di ordini di grandezza maggiore, un cambiamento che nessuno ha ancora avuto il coraggio di affrontare.
È inevitabile che alluvioni si verifichino nuovamente, cambiamento climatico o meno: non importa a quale livello di infrastrutturazione e artificializzazione porteremo i nostri territori o quanto invece ne ripristineremo la funzionalità ecologica e idromorfologica. Pertanto, la differenza tra l’evento calamitoso e quello che tale non è dipende da come i territori e le comunità sono preparati ad affrontare queste situazioni: i danni di un (inevitabile) allagamento sono tanto più ingenti quanto meno si è lavorato per ridurre la vulnerabilità degli insediamenti, la probabilità di avere delle vittime tanto è più elevata quanto meno le persone sono consapevoli del rischio a cui sono esposte e hanno interiorizzato i comportamenti appropriati da tenere. Serve quindi continuare ad investire in sistemi di allarme e informazione e preparazione della cittadinanza che scongiurino la perdita di vite umane, così come in interventi per minimizzare la vulnerabilità dei beni esposti, per ridurre i danni entro limiti accettabili.
Cambiamenti di lungo periodo come quello climatico, inoltre, non possono essere affrontati con interventi emergenziali e puntuali, va al contrario rafforzata un’adeguata pianificazione a scala di bacino, per evitare di creare di volta in volta problemi sempre più grandi che vengono solo momentaneamente spostati nello spazio e nel tempo. Ne sono un esempio le normative regionali che promuovono l’estrazione di sedimenti nei fiumi da parte dei privati o il recente decreto che supporta l’estrazione di legname in alveo da parte degli agricoltori. Sedimenti, legname e vegetazione riparia rientrano in un sistema complesso di equilibri che vanno compresi e gestiti appieno per evitare di creare maggiori danni di quelli che si cercano di risolvere. Gestire i fiumi è un mestiere complesso, che non può prescindere dall’utilizzo di competenze diverse. È un percorso lungo, difficile, oneroso, che non insegue il consenso immediato e l’inganno delle soluzioni “chiavi in mano”. Abbandoniamo gli slogan e le scorciatoie, ridiamo spazio alla programmazione. E ai fiumi.